La Turchia sta premendo sull’acceleratore delle politiche espansioniste, approfittando di ogni vantaggio e ogni situazione favorevole che le si para d’innanzi. Fin dal 2015, la Turchia sta guardando ai Balcani con una serie di accordi stipulati con Albania, Bosnia, Macedonia e Kossovo, paesi coi quali condivide radici religiose, ponendosi quindi come garante e difensore delle comunità musulmane – ancora traumatizzate dagli eventi di inizio anni novanta – anche se le ambizioni appaiono ben più ampie. Vista la prospettiva di europeizzare i Balcani entro il 2025, avere più di un’entratura in quell’area geografica può voler dire stringere forti relazioni economiche con l’Eurozona o comunque avere un peso in una regione attenzionata dall’Unione Europea.
Forti investimenti ed incentivi hanno contraddistinto l’operato turco, investimenti che nel 2018 hanno raggiunto i due miliardi di dollari, dirottando su Ankara alcuni flussi di interessi che prima erano orientati in Grecia ed in Italia od incentivando l’imprenditoria turca ad aprire attività nei Balcani. L’ultimo “partner”, il più prezioso e il più ambito, è stata la Serbia, di importanza strategica ma che dell’indipendenza dall’antico dominio ottomano ha fatto carattere costituente della propria identità, “annessa” anche qui attraverso abili strategie e investimenti, dalla mediazione fornita per la crisi dei rifugiati dalle zone di conflitto mediorientale – nella Siria su tutte – e per ultima il finanziamento per la costruzione di un’autostrada che da Sarajevo porta a Belgrado.
Una serie di iniziative economiche per creare una egemonia regionale e per controllare un’area che si presenta sempre più appetibile in quanto cassa di espansione economica per l’Eurozona, cioè terreno ancora fertile per grossi investimenti, i quali darebbero “ossigeno” tanto all’industria quanto alla finanza. Un altro versante dell’espansione turca, oltre al “passaggio a sud” ottenuto con l’occupazione di una striscia di territorio siriano, il quale è essenziale per garantire non solo un accesso strategico al Mediterraneo, quanto per ridefinire le ZEE (Zone Economiche Esclusive), specialmente quelle riguardanti le aree prossime a Cipro.
Le ZEE, in sostanza, regolano lo sfruttamento commerciale esclusivo delle acque sia per attività ittiche sia per attività estrattive. L’accordo siglato nello scorso novembre 2019 tra Ankara di fatto divide in due la parte sud-orientale del Mediterraneo, spodestando la Grecia e cancellando ogni tratto di utilizzo economico del mare attorno a Creta. Una situazione che comincia a definire uno schema preoccupante per un vicino di casa che diventa sempre più ingombrante.
Ad aggiungere preoccupazioni ad una situazione già di per sé critica c’è la questione dei rapporti commerciali tra Russia e Turchia. La Turchia è un membro della NATO che sta però acquistando tecnologia militare dalla Russia, nella fattispecie missili S-400, uno dei sistemi missilistici in funzione contraerea ed antimissile balistico più avanzati al mondo, che i Russi hanno sviluppato per contrastare azioni con mezzi tattici come gli F-35, ossia i velivoli impiegati nelle missioni NATO. Questo sistema è in grado di creare un ampia area di interdizione alle forza aerea avversaria, andando a mettere in crisi uno dei cardini dell’odierna dottrina bellica NATO e USA che si basa sulla “supremazia dei cieli” per colpire in profondità nel teatro di guerra. Un sistema d’arma nominalmente tattico ma con indubbi risvolti strategici. Ulteriore spina nel fianco per lo zio Sam è il fatto che nell’affare libico l’Europa abbia accettato che la Russia si faccia da principale garante per le trattative e i negoziati che dovrebbero riportare la tranquillità nel Paese. Dal canto loro gli USA stanno incalzando la Turchia con minacce di sanzioni, tanto per l’occupazione del territorio siriano, quanto per “l’acquisto di tecnologia non compatibile coi sistemi NATO”.
È quindi chiaro che il mediterraneo è un centro nevralgico di rotte commerciali e traffici di ogni genere e chi ne detiene il controllo può influire pesantemente sullo sviluppo di infrastrutture e flussi economici, avendo a disposizione una leva strategica nei confronti di tutti i paesi che vi si affacciano. Interessi estrattivi da un lato, controllo militare dei mari, accordi commerciali e sudditanze economiche in aree strategiche per le future rotte commerciali tra oriente e occidente sono forse le motivazioni più accreditate per spiegare l’aggressività della Turchia negli ultimi anni.
Il fu Impero Ottomano basava parte della sua forza nell’essere al centro dei traffici tra il mondo occidentale e le aree asiatiche e, alla faccia dei teorici dello scontro di civiltà come invarianza storica, le nazioni europee e le stesse città stato ambivano a un rapporto privilegiato con la Sublime Porta che permettesse di inserirsi come terminale occidentale nell’ampia rete di scambi mercantili che attraversava l’Impero Ottomano. Il progetto Neo-Ottomano della borghesia turca che si è coagulata nell’AKP si basa da un lato sul rafforzamento della propria presenza, manu militari, nei territori che fino a inizio novecento erano sotto il suo diretto controllo – si pensi alla Siria o all’isola di Cipro – in modo da garantirsi una sfera economica esclusiva sotto il suo controllo e dall’altro sul porsi nuovamente come soggetto principale negli scambi Sud-Est/Nord-Ovest e tramite il passaggio di oleodotti e rotte marittime per altri prodotti fossili quali il gas sui propri territori e sui territori controllati.
L’entrata, quasi a gamba tesa, nella vicenda libica significa sia dare una prova di forza con una proiezione militare in un teatro geograficamente non direttamente legato all’Anatolia, sia mettere sotto controllo un’area di prima importanza per la produzione di risorse energetiche per I paesi europei – Italia in primis – acquisendo una leva di forza. Oltre questo significa accaparrarsi la possibilità di gestire I flussi di migranti che dalle aree sub-sahariane provano a raggiungere l’Europa attraverso la rotta libica.
La gestione di flussi di rifugiati del Levante è stata un’importante arma nelle mani del governo di Ankara nei confronti dei paesi europei, arma che ha permesso di drenare miliardi di euro in cambio della regolamentazione dei flussi. La Turchia probabilmente punta a compiere un’analoga mossa in terra libica, dato il sostanziale fallimento dei paesi europei nel trovare un accordo tra di loro che fosse vincolante per le due fazioni libiche – quella di Serraj e quella di Haftar – o nel risolvere per via militare il conflitto rendendo disponibili i propri asset militari a una delle due fazioni.
È evidente che né l’Italia né la Francia abbiano voglia di rischiare di vedere morire dei propri soldati mandandoli direttamente sul campo. Significherebbe anche mettere la parola fine all’Unione Europea: due paesi fondatori con interessi contrapposti che finanziano delle milizie libiche che usano quei soldi per ammazzarsi a vicenda. L’invio di soldati, anche se magari pochi e di qualche corpo di forze speciali, sarebbe troppo. La Turchia invece può assumersi il rischio e pare sia intenzionata a farlo. In questo si verrebbe a rafforzare l’ambiguo legame con la Russia, anch’essa prepotentemente rientrata nel teatro Mediterraneo: due paesi con chiare volontà egemoniche, interessi in parte contrapposti e in parte coincidenti, che raggiungono una qualche forma di “grande intesa”.
Lorcon e J.R.